venerdì 17 dicembre 2010

Alcuni personaggi, fatti e influssi al Concilio Vaticano II (1962-1965)


Sintesi della Conferenza di P. Paolo M. Siano, FI

E' indubitabile che i fenomeni di crisi dottrinale, spirituale, morale, liturgica e missionaria del post-concilio hanno i loro prodromi anche in idee e azioni di vari padri e periti dell’assise conciliare; teorie e prassi che supponevano e causavano l’apertura indiscreta alla modernità, al mondo, e quindi ai “fratelli separati” (e talora in alcuni casi anche ai “fratelli” Liberi Muratori). Nonostante tutta la buona volontà pastorale, tali idee e tale aperturismo - poco ben ponderato - non hanno convertito le suddette categorie a Cristo, bensì hanno “convertito” molti cattolici a quelle categorie.

Già durante il periodo conciliare, nell’udienza del mercoledì 4 novembre 1964, Papa Paolo VI deplorava «che si è diffusa un po’ dappertutto la mentalità del protestantesimo e del modernismo, negatrice del bisogno e dell’esistenza legittima di un’autorità intermedia nel rapporto dell’anima con Dio.

A proposito della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, lo storico Hubert Jedin (1900-1980) – già perito conciliare del card. Frings – ha osservato che la Gaudium et spes fu salutata con entusiasmo ma la storia posteriore ha dimostrato che la sua importanza e valore furono «largamente sopravvalutati» e che il mondo, che si voleva portare a Cristo, era profondamente penetrato nella Chiesa.

Nel luglio 1966, a pochi mesi dalla fine del Concilio, l’ex Sant’Uffizio mette in guardia le Conferenze Episcopali da interpretazioni erronee dei decreti conciliari. Così riassumo gli errori denunciati dal Dicastero romano: biblicismo protestante; esegesi biblica razionalistica; storicismo e relativismo dogmatico e gnoseologico; soggettivismo etico (specialmente in materia sessuale); disprezzo verso il Magistero ordinario della Chiesa; negazione della divinità di Gesù Cristo; teoria della transignificazione eucaristica negatrice della transustanziazione; circa l’Eucaristia, insistenza sul concetto di agape a scapito di quello di sacrificio; deprezzamento della confessione sacramentale; minimizzazione del peccato originale e del concetto di peccato (non più inteso come offesa a Dio); falso ecumenismo che si confonde con l’irenismo e l’indifferentismo religioso.

Nell’udienza generale del mercoledì 19 gennaio 1972, Paolo VI denunciò apertamente l’attualità - sotto altri nomi – di quel «modernismo» già condannato dal Papa San Pio X col decreto Lamentabili (1907) e con l’enciclica Pascendi. Nell’udienza al Sacro Collegio Cardinalizio, del 23 giugno 1972, Paolo VI denunciò «una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa preconciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa “nuova”, quasi “reinventata” dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto».

Nel giugno 2009, a Roma, durante l’incontro annuale dei Rettori dei Seminari Pontifici, il Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, Mons. Jean-Louis Bruguès ha riconosciuto che quelli della sua generazione hanno interpretato «l’ “apertura al mondo” invocata dal concilio Vaticano II come un passaggio alla secolarizzazione». In un altro recente articolo, Mons. Bruguès ha denunciato l’auto-secolarizzazione che dal post-concilio in poi ha minato anche la vita religiosa.

Tra i frutti di questa autosecolarizzazione: «Gli organici sono diminuiti a vista d’occhio nelle chiese, nei corsi di catechesi, ma anche nei seminari». Mons. Bruguès ammette che la corrente ecclesiastica auto-secolarizzatrice è ancora dominante in quanto «i suoi adepti detengono ancora delle posizioni chiave nella Chiesa».

Il Vaticano II è stato un concilio «riformatore» di natura pastorale che si confrontò con tre termini sinonimi di «cambiamento», ossia: «aggiornamento, sviluppo, ressourcement».

Nel Concilio avvengono dibattiti e scontri conciliari anche molto duri; la segretezza al riguardo fu mal custodita. I mass-media, più presenti che nel passato, si impadronirono di tali fatti e li resero noti al grande pubblico influenzando anche la ricezione del Concilio.

Prima e durante il Concilio, un concetto chiave che esprime una nuova sensibilità di esser cattolico, è ressourcement, ossia ritorno alle fonti: concetto che fu proprio degli Umanisti del ‘400-‘500 (es. Erasmo da Rotterdam) e dei riformatori protestanti: ritornare alla Sacra Scrittura, ritornare alle fonti patristiche (queste ultime però rifiutate dai protestanti). Un tale concetto faceva ben comprendere un rifiuto o per lo meno un disagio di fronte al cattolicesimo post-tridentino… A tale ressourcement si richiamavano quei teologi europei di metà Novecento che vennero censurati dal Sant’Uffizio: i teologi della cosiddetta Nouvelle Théologie, profondamente anti-tomista e anti-scolastica. Dopo l’enciclica Humani generis di Pio XII, questi teologi, sospettati di neo-modernismo, vennero rimossi dall’insegnamento con la proibizione di pubblicare scritti su alcuni temi. Tra questi, ricordiamo Henri De Lubac, Yves Congar, Marie-Dominique Chenu. Karl Rahner ebbe censure e divieti di pubblicazione dal 1951 al 1962, prima dell’inizio del Vaticano II, allorché gli fu notificato che i suoi scritti sarebbero andati in stampa solo dopo aver passato la censura romana. La riabilitazione conciliare di tali studiosi è «uno degli aspetti che più colpiscono del Vaticano II, nonché un’ulteriore indicazione del fatto che il Concilio intendesse modificare lo status quo».

Lo studioso Joseph Komonchak cerca di esaminare la questione della continuità/discontinuità del Concilio (dalla Tradizione) dal punto di vista dottrinale, teologico e storico sociologico. Dal punto di vista dottrinale c’è continuità, in quanto il Vaticano II non ha abbandonato alcun dogma e non ne ha definito di nuovi. Dal punto di visto storico-sociologico si può dire che il Concilio sia stato l’evento più importante nella storia della Chiesa del secolo XX, segnando una «svolta epocale».

Circa la polarità conciliare conservatori-progressisti, osserva O’Malley:

«Durante il Concilio, i media accusavano spesso i conservatori di oscurantismo, intransigenza, scarso senso della realtà, nonché di mettere in atto manovre sporche. Una cosa, sicuramente, si può dire in loro favore: vedevano, o almeno denunciavano più apertamente, la novità e le pesanti conseguenze di alcune decisioni conciliari, mentre i leader della maggioranza, viceversa, in genere cercavano di minimizzare la novità di alcune delle loro posizioni e insistevano che fossero, invece, in continuità con la tradizione. Ed è un’ironia che dopo il Vaticano II i conservatori abbiano cominciato a parlare di continuità del Concilio mentre i cosiddetti liberali ne sottolineavano la novità».

Interessanti i racconti di due giornalisti contemporanei al Vaticano II: p. Ralph Wiltgen SVD (1921-2007), ed Henri Fesquet.

Nel 1967 uscì la prima edizione del libro di Wiltgen, The Rhine flows into the Tiber. A History of Vatican II. Il suo libro reca l’imprimatur dell’allora Arcivescovo di New York, Mons. Terence Cooke (15-12-1966). Nella prefazione, Wiltgen spiega che per Reno egli intende il gruppo di Padri e periti conciliari appartenenti a quei Paesi in cui scorre il fiume Reno (Germania, Austria, Svizzera, Austria, Olanda) incluso il vicino Belgio. Tale gruppo – precisa Wiltgen – fu il più influente al Concilio Vaticano II («the most influential group»).

Henri Fesquet, ex novizio dei Missionari d’Africa, poi discepolo di Jean Guitton e di p. Yves Congar O.P., dal 1950 giornalista di Le Monde, racconta il Concilio con spirito laico e progressista che si può sintetizzare nei seguenti punti: 1) “complotti” e “lobbies” conciliari, para ed extra-conciliari; 2) minimalismo mariologico ed ecumenismo “del non-ritorno”; 3) cenni di biblicismo; 4) collegialità episcopale tra ortodossia ed episcopalismo-conciliarismo; 5) Vita Consacrata tra sacro e secolarismo; 6) apertura al mondo; 7) contraccezione; 8) un curioso Padre conciliare.

In seguito, il Card. Tisserant confidò a Jean Guitton che lui e sei porporati si riunirono prima dell’apertura del Concilio e decisero di bloccare la prima seduta conciliare rifiutando le regole stabilite da Giovanni XXIII.

I Padri “renani” riuscirono ad aver l’appoggio di molti africani anglofoni e francofoni nonché di altri Padri europei e statunitensi. Insomma la lista di Frings divenne internazionale, e poteva garantire in tutte le Commissioni conciliari la presenza della cosiddetta “Alleanza renana” o “europea”. Questa ottenne il 49% di tutti i seggi elettivi e il 50% della Commissione Teologica, la più importante.

La cosiddetta Alleanza renana-europea era appoggiata anche da Vescovi latino-americani, (rappresentati dal card. Raul Silva Henriquez di Santiago del Cile), nonché dai Superiori religiosi e dai vescovi missionari provenienti dai Paesi “renani”. Ovviamente il cardinal Frings era appoggiato da quei Vescovi delle terre di missione che ricevevano generosi finanziamenti attraverso due agenzie da lui fondate: Misereor e Adveniat.

I vescovi olandesi fecero distribuire ai Padri conciliari circa 1500 copie di un commentario anonimo di p. Schillebeckx che criticava in maniera devastante i quattro schemi dogmatici:

1) Le Fonti della Rivelazione, 2) La custodia del Deposito della Fede, 3) L’Ordine morale cristiano, 4) Castità, Matrimonio, Famiglia e Verginità.

Durante la prima sessione del Concilio il teologo svizzero P. Hans Küng (ben noto per il suo progressismo) si dichiarò soddisfatto del rigetto dello schema curiale su dogma ed ecumenismo e sulle fonti della rivelazione. Al Concilio, Mons. Sergio Mendez Arceo, il vescovo di Cuernavaca (Messico), si fecedifensore della Massoneria (auspicandone la riconciliazione con la Chiesa), degli Ebrei e della psicanalisi. Auspicò anche il riconoscimento delle comunità protestanti come chiese.

Personaggio influente al Concilio fu il gesuita p. Karl Rahner. Le sue idee sono rilevabili comparando le sue osservazioni ai tre schemi conciliari (su Rivelazione, B.V. Maria, Chiesa) con quelle sottoposte al Segretariato Generale del Concilio Rahner contestò lo schema mariologico dal punto di vista della teologia moderna e dell’ecumenismo. Rahner precisò che secondo un punto di vista teologico moderno, le dottrine di quello schema non possono divenire dogma. Ciò che Rahner attaccava di quello schema era, specialmente, la dottrina sulla mediazione della Beata Vergine Maria ed il titolo di Mediatrice di tutte le grazie. Eppure era una dottrina comune nella Chiesa, insegnata dal Magistero ordinario della Chiesa. Rahner riuscì a convincere i Padri riuniti a Fulda che lo schema non poteva esser accolto nella sua presente forma. Erano contrari al titolo mariano di “Madre della Chiesa” i Vescovi di lingua tedesca e dei Paesi scandinavi e Mons. Mendez Arceo.

Nell’intervallo tra la seconda e la terza sessione conciliare, il barone Yves Marsaudon, massone del 33° grado RSAA (Grande Loge de France), raccontò in un libro le sue speranze progressiste ed ecumeniche. Marsaudon lodò la maggioranza conciliare contro la minoranza curiale “integralista”… Marsaudon vede il Vaticano II come la rivoluzione dei Papi Roncalli e Montini che finalmente metterebbe fine alla Chiesa medievale… Marsaudon elogia la semplificazione della liturgia, l’uso liturgico del vernacolo, il divorzio, il minimismo mariologico, la collegialità episcopale (ma in senso antipapale), l’ecumenismo che unisce e supera dogmi e religioni, la libertà di pensiero che partita dalle logge massoniche si è estesa al di sopra della Basilica di San Pietro…

Sulla pastoralità del Concilio, nessun dubbio e nessuna discussione


(Sintesi della conferenza di mons. Brunero Gherardini)

Il Vaticano II non fu, solo perché non doveva esserlo, un Concilio dogmatico e tutto sommato nemmeno disciplinare. Volle esser soltanto pastorale. Eppure, nonostante i tanti interventi interni ed esterni, il genuino significato della sua dichiarata pastoralità è ancora fra le nebbie.

Nell’esortare il clero a farsi di giorno in giorno strumento d’un sempre più idoneo servizio al popolo di Dio, il Vaticano II dichiara esplicitamente che la sua finalità pastorale si ripromette “il rinnovamento interno della Chiesa, la diffusione dell’evangelo in tutto il mondo e l’instaurazione d’un rapporto dialogico con esso”. Una tale finalità corrisponde evidentemente ad un’idea di fondo, ad una nozione almeno rudimentale di pastorale appena adombrata: rapporto dialogico col mondo da parte d’una Chiesa rinnovata nei suoi metodi d’evangelizzazione e d’apostolato.

Papa Roncalli, l’11 ottobre 1962, prospettò ai Padri aprendo ufficialmente la grande Assise conciliare: pur mettendo la dottrina al primo posto dei lavori conciliari, ne diversificò la metodologia rispetto al passato. Prima la Chiesa non rifuggiva dalla condanna, severa e ferma. Oggi alla severità preferisce la medicina della misericordia. Per papa Roncalli, dunque, soprattutto di fronte ad un’umanità prigioniera di tante difficoltà, la Chiesa avrebbe dovuto mostrare il volto buono benevolo paziente della Madre, fomentare la promozione umana dilatando gli spazi della carità, diffondere serenità pace concordia ed amore.

A conferma dell’indirizzo roncalliano, Paolo VI, nell’omilia del 7 dic. 1965 per la nona sessione del Concilio, dichiarò che la Chiesa ha a cuore, insieme con il regno dei cieli, l’uomo ed il mondo, è tutta anzi in funzione dell’uomo e del mondo, intimo essendo il legame tra la religione cattolica e la vita umana, al punto che dell’uomo e del genere umano la religione cattolica può dirsi la vita stessa, grazie alla sua sublime dottrina, alla cura materna con cui accompagna l’uomo verso il suo fine supremo, ai mezzi che gli dona perché possa conseguirlo.S’impone, a questo punto, un giudizio sereno ed obiettivo sulla qualità complessiva del Vaticano II, che affrettatamente ed ingenuamente fu chiuso nell’area pastorale.Chi ha dimestichezza non con la sola Gaudium et Spes, ma con tutt’i sedici documenti conciliari, si rende ben conto che la varietà tematica e la corrispettiva metodologia collocano il Vaticano II su quattro livelli, qualitativamente distinti:

1. quello generico, del Concilio ecumenico in quanto Concilio ecumenico;

2. quello specifico del taglio pastorale;

3. quello dell’appello ad altri Concili;

4. quello delle innovazioni.

Sul piano generico, il Vaticano II ha tutte le carte in regola per esser un autentico Concilio della Chiesa cattolica: il 21° della serie. Ne discende un magistero conciliare, cioè supremo e solenne. La qual cosa di per sé non depone per la dogmaticità ed infallibilità dei suoi asserti; anzi nemmeno la comporta, avendola in partenza allontanata dal proprio orizzonte.

Sul piano specifico la qualifica di pastorale ne giustifica i vastissimi interessi, non pochi dei quali eccedenti l’ambito della Fede e della teologia: p. es. la comunicazione sociale, la tecnologia, l’efficientismo della società contemporanea, la politica, la pace, la guerra, la vita economico-sociale. Anche questo livello appartien all’insegnamento conciliare ed è quindi supremo e solenne, ma non può vantare, per la materia trattata e per il modo non dogmatico di trattarla, una validità di per sé infallibile e irriformabile.

L’appello ad alcuni insegnamenti di precedenti Concili costituisce il terzo livello. E’ un appello talvolta diretto ed esplicito (LG 1 “praecedentium Conciliorum argumento instans”; LG 18: “Concilii Vaticani primi vestigia premens”; DV 1: “Conciliorum Tridentini et Vaticani I inhaerens vestigiis”), talvolta indiretto ed implicito, che riprende verità già definite: p. es. la natura della Chiesa, la sua struttura gerarchica, la successione apostolica, la giurisdizione universale del Papa, l’incarnazione del Verbo, la redenzione, l’infallibilità della Chiesa e del magistero ecclesiastico, la vita eterna dei buoni e l’eterna condanna dei cattivi. Sotto questo aspetto, il Vaticano II gode d’un’incontestabile validità dogmatica, senz’esser per questo un Concilio dogmatico, essendo la sua una dogmaticità di riflesso, propria dei testi conciliari citati.

Le innovazioni costituiscono il quarto livello. Se si guarda allo spirito che guidò il Concilio, si potrebbe affermare ch’esso fu tutto un quarto livello, animato com’era da uno spirito radicalmente innovatore, anche là dove tentava il suo radicamento nella Tradizione. Alcune innovazioni sono però specifiche: la collegialità dei vescovi, l’assorbimento della Tradizione nella Sacra Scrittura, la limitazione dell’ispirazione ed inerranza biblica, gli strani rapporti con il mondo ebraico ed islamico, le forzature della c.d. libertà religiosa. E’ fin troppo chiaro che se c’è un livello al quale la qualità dogmatica non è assolutamente riconoscibile, è proprio quelle delle novità conciliari.

Capire e valutare il Concilio


E’ iniziato ieri e si protrarrà fino al 18 dicembre, un convegno di studi sul Concilio Vaticano II presso l’auditorium dell’Istituto Maria SS. Bambina di Roma.

Organizzato dai Frati Francescani dell’Immacolata, lo scopo è un’analisi storico-filosofico-teologica su un evento che attira ancora attenzione e suscita una valutazione onesta e profetica per l’avvenire della Chiesa. A oltre 40 anni dal Vaticano II, infatti, l’entusiasmo dei padri conciliari si scontra con la problematica situazione della Chiesa e della società contemporanea.

Mons. Luigi Negri, vescovo di S. Marino-Montefeltro ha aperto i lavori con una prolusione nella quale ha ricordato le sfide della Chiesa di oggi, bisognosa più che mai di una riforma culturale e di un rilancio missionario.

Mons. Brunero Gherardini, offrendo la prima conferenza, ha evidenziato l’indole pastorale del Vaticano II, collocando nel giusto valore e nei giusti limiti le esperienze prodottesi in ambito apostolico e liturgico, non sempre decifrate e vissute dal popolo di Dio nel recupero del sacro e nell’approfondimento della dottrina.

“La nostra volontà – afferma p. Alfonso M. Bruno, portavoce dei Francescani dell’Immacolata - non è quella di scivolare o lasciarsi strumentalizzare dalle correnti polarizzate dei cosiddetti progressisti e tradizionalisti, ma di offrire un contributo accademico di riflessione per un’ermeneutica della continuità del Vaticano II, nella Chiesa che è in una continua riforma, ma che altresì non inventa se stessa”.

Nel pomeriggio molto apprezzate sono state le conferenze dei professori Roberto de Mattei, Yves Chiron e Ignacio Andereggen che hanno parlato rispettivamente sul repentino cambiamento della Chiesa nel XX secolo, sul percorso storico dei pontefici tra il Vaticano I e il Vaticano II e su un’analisi filosofica della modernità.

Hanno fatto da corollario alle conferenze le comunicazioni dei docenti dello Studio Teologico “Immacolata Mediatrice”.

giovedì 16 dicembre 2010

Cosa voleva essere veramente il Concilio?

Fino a qualche anno fa, era assolutamente proibito porsi in modo critico dinanzi al Concilio Vaticano II. Per respingere l’oltranzismo opposto, di dura marca tradizionalista, bisognava solo incensare il Concilio: nome che presto si impose per definire il Vaticano II. Bisognava parlarne sempre bene e bisognava far finta che tutto andava bene. Ma la Chiesa languiva e langue nel suo intimo. È successo qualcosa al Vaticano II?, si chiedeva il padre gesuita J. W. O'Malley. Fu quel memorando discorso di Benedetto XVI alla Curia romana, del dicembre 2005, che riuscì a rompere quel rispettoso ed irriverente silenzio dominante. Il Pontefice parlava di due ermeneutiche che si erano tra loro scontrate: quella giusta della continuità nella riforma e quella errata della discontinuità e della rottura. Dove il Concilio è stato interpretato come momento solenne della Tradizione della Chiesa, ma senza provocare sconquassi, si son visti anche i buoni frutti: la nascita di nuove congregazioni religiose, l’amore e la devozione costanti alla Madonna, la retta celebrazione della liturgia, senza estri e arbitri, la nascita di nuovi movimenti laicali, ecc. Lì dove invece ha prevalso la rottura, si è assistito al nascere, per tanti versi, di una “nuova” fede, di una chiesa antropocentrica. Dopo più di quarant’anni di recezione conciliare, dobbiamo constatare un fatto: nella Chiesa, in larga parte, ha prevalso la rottura. Il negarlo è già sintomo di avere quei paraocchi ideologici, che spingevano, nell’immediato post-concilio, e ancora adesso, a vedere tutto bello, tutto buono: anche il peccato era una cosa bella e buona, perché era una componente dell’uomo! Sì, ha prevalso purtroppo la rottura: tanti seminari vuoti, chiese semivuote, partecipazione ai sacramenti ridotta al lumicino, un fai da te esasperante, promosso spesso da una predicazione in cui il “presidente dell’assemblea” si improvvisa presentatore di un talkshow comunitario. Eppure, qui ci si appella al Concilio. La radice dell’arbitrio, comunque, è riconducibile al concetto teologico di “conciliarità”, che il Vaticano II avrebbe inaugurato. In questa interpretazione si è distinta la Scuola di Bologna, che con Alberigo e i suoi collaboratori, ha voluto espungere dai testi lo spirito, l’evento: un nuovo modo di essere chiesa oggi. Il Vaticano II sarebbe comprensibile nella misura in cui non ci si ferma solo ai dati conciliari, ma partendo dai dati, si va avanti in un crescendo sempre nuovo, purché si ignori quello che la Chiesa era stata prima. Il prima è quasi da cancellare in nome del nuovo. Non è forse vero che tanti sacerdoti si vergognano della Chiesa di prima? Di prima, appunto. Perché ormai c’è solo una Chiesa del dopo. Un dopo che però guarda ad un futuro incerto: un futuro senza un’origine è un futuro senza un’anima, senza una forma. La Chiesa si è ritrovata, in tante sue componenti, ad essere un agglomerato senza più una forma. E tanti hanno disertato i banchi delle nostre assemblee per andare ad occuparne altri, magari più comodi, ma in tanti, panche nelle quali c’era ancora un inginocchiatoio.

È prevalso il fatto che tutti sono uguali, preti e fedeli, tutti fanno la stessa cosa. Prassi, tutto è divenuto prassi; un fare che però alla fine stanca. La rottura ha fatto prevalere il fare, principiando da un’ideologia, che nella voluta equivocità del lemma “pastorale”, ha dettato i canoni di un nuovo modo di fare, ma che ha portato la Chiesa, in tante sue parti, nelle secche di un secolarismo asfissiante. L’uomo è stato messo al centro. La pastorale, in larga scala, è divenuta – in realtà non sappiamo più precisamente cosa sia – il modo pratico di adattare la sostanza della dottrina della fede al mondo che cambia, e finalmente, di adattare la fede al mondo. Non più un mondo da convertire alla fede di Cristo, ma una fede da adattare al mondo, ad un mondo contemplato già in sé santo e salvo, i cui parametri sono divenuti i nostri criteri di giudizio, il nostro porci e il nostro vivere. Il mondo è entrato nella Chiesa ma la Chiesa fa ancora fatica ad entrare nel mondo. Perché?

Tanti sforzi pastorali sono semplicemente una lettura sociologica di dati che, in verità, le statistiche dell’Istat forniscono con più precisione.

L’uomo, in verità, continua ad aver bisogno di Dio, della vera spiritualità, della vera devozione. Dobbiamo allora capire il giusto rapporto tra Chiesa, Concilio e Tradizione. Un concilio non è mai superiore alla Chiesa, né tanto meno alla sua Tradizione. Tanti hanno iniziato a credere nel Concilio e non più nella Chiesa. Un concilio non può cambiare la Chiesa. Se lo ha fatto, è segno che c’è qualcosa che non ha funzionato nella sua recezione. Tutto questo lo stiamo esaminando nel nostro convegno organizzato a Roma dal 16 al 18 dicembre 2010, dai Francescani dell’Immacolata, dal titolo: Concilio Ecumenico Vaticano II: un concilio pastorale. Analisi storico-filosofico-teologica.


p. Serafino M. Lanzetta, FI

mercoledì 15 dicembre 2010

Il Vaticano II è un problema?

Si approssima il convegno dei Francescani dell’Immacolata sul Concilio Vaticano II come concilio pastorale, in un clima abbastanza rovente e in un crescente dibattito, segno che qui si nasconde un problema unito ad una speranza. Si desidera lumeggiare la vera natura del Concilio, quello che il Concilio stesso desiderava essere, spesso equivocata, per fare del Vaticano II o l’unico concilio dogmatico del cristianesimo o un “concilio-meteoriote”, sì da poterlo semplicemente scartare. Fino a poco tempo fa, il solo pensare di potersi porre in modo critico dinanzi al Vaticano II, appariva come una cripto-eresia per la coltre di silenzio che necessariamente doveva regnare, ammantandolo sol di lodi e di encomi. Eppure, dopo quarant’anni e più, siamo dinanzi ad un dato innegabile: la rottura e lo spirito del Concilio, ovvero quel modo di decontestualizzarlo dalla Tradizione bimillenaria, hanno prevalso e la Chiesa si è lentamente e progressivamente secolarizzata. Il mondo, in un certo senso, ha vinto sulla Chiesa; quel mondo che la Chiesa voleva raggiungere in ogni modo. Il Vaticano II è un problema? Sì, nel senso che le radici dell’estro post-conciliare non sono solo nel post-concilio. Il post-concilio non dà ragione di sé. Dunque, bisogna prendersi la briga, per amore della Chiesa e per il futuro della fede nel mondo, di andare ad esaminare la radice del problema.
Si tratta di una questione molto sottile e delicata, che richiede attenzione ed acribia. Certamente, non condividiamo quella eccessiva dogmatizzazione del Vaticano II perché Concilio Ecumenico, volta a preservare il Concilio dalle dure invettive del tradizionalismo avanzato. I problemi della rottura non sono ravvisabili solo dopo il Concilio, ma dentro lo stesso Concilio e se vogliamo, in una teologia che si delineava già nel pre-concilio: quella teologia che preferiva al metodo metafisico-scolastico, quello delle scienze umane e della filosofia moderna (Rahner è un esempio).
Ora, le domande che si delineano e che esigono una risposta chiara sono due: 1) perché ha prevalso la rottura? E, dov’è l’appiglio per dogmatizzare la rottura?
La rottura ha prevalso facendo leva su una scarsa chiarezza dogmatica che vi è nel Concilio, per il fatto, ovvio, che si pone come concilio pastorale, ma che necessariamente vuole e deve affrontare anche problemi e dati dottrinali. Si voleva far avanzare la dottrina della fede ma con un discorso pastorale: ripresentare un discorso dogmatico, così come era inteso prima, fu ritenuto anacronistico. Questo si vede ad esempio nel rinunciare in toto agli schemi già preparati.
Il preferire alla metafisica un approccio più discorsivo e la pastoralità fontale del Concilio, sono due elementi necessari per capire il tenore generale dei 16 documenti conciliari (che sono diversi e a ciascuno si deve applicare un criterio ermeneutico adatto), e la possibilità di interpretarli, quando non letti alla luce della perenne Tradizione della Chiesa, in modo surrettizio, e purtroppo giustificando questa pretesa in nome del Concilio.
Quindi si arriva alla seconda domanda. Ci si può appigliare al Vaticano II per formulare anche delle dottrine erronee o per tradire il magistero, perché i documenti, in quanto formulati con un approccio di tipo pastorale e non per definire una dottrina di fede o di morale, si lascerebbero vedere, quando assolutizzati appunto, come un patrimonio a se stante, come il modo nuovo di dire la dottrina di sempre. Qui si nasconde un altro grande problema: il lemma “pastorale” ha subito una forte evoluzione, fino a diventare, in alcuni teologi, il modo pratico di cambiare, con un nuovo linguaggio, con una nuova teologia, il modo di esporre la dottrina e finalmente la stessa dottrina. La pastorale, letta però in un modo completamente nuovo e spesso rivoluzionario, è divenuta la misura della teologia, che cambia in ragione delle epoche e dei tempi: questo sarebbe stato giustificato dal Concilio. Evidentemente, qui si piega il Concilio – che si presterebbe solo se esiliato dal suo contesto e dalla Tradizione –, ai propri desideri di aggiornamento, non della pietà cristiana e della fede soggettiva, ma della fede intesa come deposito che si evolve e può cambiare. La ragione qui è l’ingresso della categoria “storia” nell’impianto della Rivelazione. La Rivelazione sussume in sé il momento storico e la storia guida la comprensione della Rivelazione. La fede così viene subordinata all’“evento Vaticano II”, finendo col credere all’evento più che alla Chiesa-mistero.
Da tutto questo risulta che il Vaticano II (del resto come ogni altro concilio) deve essere necessariamente interpretato (anche il dogma si deve leggere sempre nel modo giusto). Ma per un’interpretazione corretta si necessita fondamentalmente di 3 cose: 1) tener conto della natura pastorale del Concilio e quindi di un progresso dottrinale o regresso, quando quel nuovo è inteso come rottura; 2) tener conto del tenore dei documenti del Concilio: i documenti nel loro insieme sono espressione di un magistero solenne e ordinario autentico; infallibile solo di riflesso, ovvero quando si richiama a dottrine già definite o a dottrine definitive tenenda, la cui definitività è espressa dallo stesso magistero. Il progresso dogmatico del Vaticano II, che può segnare un’eventuale continuità/discontinuità, va valutato alla luce della teologia, e misurato con gli strumenti teologici, per il fatto che siamo di fronte ad un magistero ordinario e non definitorio. La teologia in questo caso funge da ancella del magistero; 3) è necessario, infine, contestualizzare il Vaticano II, leggendo anche i retroscena storici che lo hanno interessato: la crisi modernista degli inizi del XX secolo; il notevole sviluppo teologico e il nuovo metodo utilizzato in teologia, non sempre però in conformità con il sentire della Chiesa; il passaggio dalla modernità alla post-modernità quale crisi degli stessi apogei conquistati dalla ragione illuminata e volontà di ribellarsi ad ogni istituzione – anche nella Chiesa entrò la contestazione –, con la rivoluzione culturale del ’68. Bisogna tener conto, in altri termini, di un mondo che è fortemente e repentinamente cambiato, per altro ora già diverso da quello presente al Concilio e previsto dall’analisi di Gaudium et spes. Di qui la necessità di un’analisi critica che sia costruttiva per un’adeguata interpretazione del dato conciliare. La Chiesa non inizia col Concilio ma con Gesù Cristo. Il metro ultimo della valutazione della fede, infatti, non è il Concilio ma la Tradizione della Chiesa. Il Concilio porta un avanzamento della comprensione della fede certo, ma non muta la Chiesa. Se la Chiesa è mutata non è in ragione del Concilio in sé, ma di una visione scorretta della “conciliarità” e quindi della stessa Tradizione della Chiesa. La Chiesa ha convocato e approvato questo Concilio come i 20 che sono alle sue spalle.
Questo significa dunque che il progresso è indiscutibile, ma ogni progresso segna comunque anche un certo regresso, in ragione delle falsità e degli errori che vi si possono celare. Si tratta di esaminare in modo critico i punti dove queste falsità possono innestarsi e quindi fare un attento esame ermeneutico del Vaticano II alla luce della fede di sempre. Quello che ci proponiamo di fare col nostro Convegno.


p. Serafino M. Lanzetta, FI