sabato 25 dicembre 2010

Auguri di un Santo Natale e di un Nuovo Anno ricco di grazie


Nella solennità del S. Natale del Signore, vogliamo rivolgere ai nostri lettori l'augurio più sincero di vivere ogni giorno il mistero che nella fede celebriamo: la santa Eucaristia è il mistero sempre presente e reale della Nativitas Domini. Pubblichiamo di seguito l'omelia che il P. Serafino M. Lanzetta ha rivolto ai fedeli della Chiesa di Ognissanti, nella notte di Natale.



S. Natale – Messa della Notte 2010


Dio ha preso la nostra natura umana. Dio si è fatto uomo. Così ci fa pregare la liturgia nella preghiera sulle offerte di questa Santa Notte di Natale:

Grata tibi sit, Dómine, quæsumus, hodiérnæ festivitátis oblátio, ut, per hæc sacrosáncta commércia, in illíus inveniámur forma, in quo tecum est nostra substántia. Qui vivit et regnat in sæcula sæculórum.

Ti sia gradita Signore l’oblazione di questa odierna festività, affinché, per questo sacrosanto commercio, troviamo la forma (siamo formati), in Colui che con te è la nostra sostanza. Colui che vive e regna nei secoli dei secoli.

La liturgia, suprema lode al Creatore e al Signore, ci invita, in questa notte dove regna il silenzio dei rumori, a trovare la nostra forma in Cristo: in questo misterioso scambio della nostra umanità con la sua divinità, possiamo diventare simili a Cristo che ha portato in Dio la nostra sostanza, quello che noi siamo. Lui prende la nostra umanità e ci dona la sua divinità. In questo “commercio” che è un’oblatio noi siamo formati, ci è data una forma, possiamo ritrovare nuovamente noi stessi.

Non è forse vero che una mancanza di identità colpisce oggi la nostra società e la nostra cultura? Oggi non abbiamo più una forma. Abbiamo smarrito quello che siamo. Mancano i valori morali fondamentali dell’uomo in quanto tale; valori condivisi da tutti perché possiamo continuare a sperare di essere domani quello che siamo oggi. In un certo senso, si è oscurata in noi la forma di uomini, o meglio è stata ricoperta da un nuovo modo di essere: essere senza più quello che siamo, liberi anche di non essere, liberi anche di cambiarci, di cambiare le cose che ci appartengono, come ad esempio la famiglia, i rapporti di lavoro: viviamo in una continua agitazione e confusione.

Anche la Chiesa rischia di vivere senza una forma, quando tanti cattolici, che sono membra vive di quest’unico Corpo di Cristo, non si riconoscono più in quella forma del credere e del pregare di sempre; hanno bisogno di cambiare, di adattare a sé la fede e di credere nel modo che fa più comodo. Molto spesso però la nostra preghiera è vuota, è un parlare con noi stessi, con i nostri affanni. Abbiamo smarrito il vero e santo dialogo con Dio, perché la nostra vita di fede non ha una forma cattolica, non ha più un’anima.

Ma a monte di questi smarrimenti, regna un problema capitale, una domanda che se non risposta nel modo giusto rischia di lasciarci sempre ai margini: Dio si può fare veramente uomo? Veramente Dio è diventato uomo?

Interroghiamo due testimoni dei primi secoli e così potremo capire come sia necessario rispondere a questa domanda, perché da essa, dal Natale, dipende il ritrovare la nostra forma.

Il primo è un filosofo pagano del II sec. di nome Celso. Nel 178 tenne un famoso Discorso della verità contro il cristianesimo, nel quale si faceva beffa dei cristiani, per il fatto che credevano in un Dio fatto uomo. Per lui, dotto, Dio non poteva diventare uomo, sarebbe stato indegno di un Dio. D’altronde Cristo, aveva scelto degli illetterati, ed era addirittura, come lui pensava, figlio di un adulterio di Maria (ripudiata dal marito) con un soldato romano di nome Pantera (scambiando il sostantivo greco parthenos, che significa vergine, con un nome di un soldato). Per Celso Cristo era un povero uomo e Dio non era quel Cristo, Dio non era conoscibile in quel Cristo.

L’altro autore dei primi secoli, precisamente del III secolo, questa volta però un prete alessandrino, è Ario, il quale metteva in discussione la divinità di Cristo: Cristo non poteva essere Dio, perché partiva dalla filosofia platonica secondo cui Dio era ingenerato (aghénnetos). Per lui Cristo dunque era un dio inferiore ma un uomo superiore: una via di mezzo tra Dio e l’uomo, in definitiva né Dio né uomo.

Questi due autori sebbene diversi perché uno era ateo, potremmo dire oggi, e l’altro credente, sacerdote e teologo, hanno qualcosa in comune: la sfiducia nella grandezza di Dio, il quale proprio perché Dio, poteva diventare uomo. Preferiscono un Dio intoccabile, inarrivabile, un Dio lontano da noi, un Dio in definitiva più conveniente. Con la loro ragione non riescono a vedere questo grande mistero del sacrum commercium; i loro occhi erano appannati forse dalla superbia, che gli impediva di vedere oltre, di concepire un Dio che per amore si abbassa e così ci esalta. La superbia, infatti, è la causa, oggi, dello smarrimento della nostra forma cristiana. Non abbiamo più l’umiltà di considerarci piccoli e bisognosi di Dio. Noi vogliamo metterci al posto di Dio e perciò non sappiamo più riconoscerlo in questo Bambino. Ma chi non vede questo Bambino e non lo riconosce quale Figlio di Dio, Dio uguale al Padre, presto non riconoscerà neppure le cose più importanti della vita, come la vita di un bambino che nasce. Chi non sa vedere questa umiltà di Dio, presto pretenderà di mettersi al suo posto e di decidere in modo arbitrario e disumano cosa è la vita e cosa è la morte. Senza l’umiltà siamo difformi da quello che siamo e non sappiamo più vedere Dio in questo Bambinello. Ma solo Lui ci salva, solo in Lui troviamo la nostra vera identità, la nostra forma.

Solo se Dio è onnipotente, il Figlio di Dio può diventare uomo; solo se Dio è amore l’uomo può diventare come Dio, formato nella sostanza del Figlio che è uno col Padre e lo Spirito Santo. Amen.

mercoledì 22 dicembre 2010

Il convegno sul Vaticano II in TV. Segui il dibattito on-line


Il recente convegno su: Il Vaticano II: un concilio pastorale. Analisi storico-filosofico-teologica, organizzato dai Francescani dell'Immacolata è sulla TV dell'Immacolata. Segui le registrazioni video collegandoti al link della nostra televisione.


Convegno a Roma sul Concilio Vaticano II

“Il Concilio Vaticano II e la sua giusta ermeneutica alla luce della Tradizione della Chiesa” ha costituito l’oggetto di un importante Convegno di studi, organizzato dal 16 al 18 dicembre dall’Istituto dei Frati Francescani dell’Immacolata. Riportiamo un resoconto del convegno del prof. Fabrizio Cannone, che ne ha seguito i lavori.

Il Convegno sul Concilio Vaticano II dei Francescani dell’Immacolata, svoltosi a Roma dal 16 al 18 dicembre, ha costituito una delle prime risposte all’invito al dibattito e all’analisi critica sul Vaticano II, rivolto da Benedetto XVI nel suo ormai celebre discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005. Il dibattito si è recentemente acceso, anche sulla stampa, dopo la pubblicazione, avvenuta all’inizio di dicembre 2010, dello studio storico-sistematico sul Concilio del professor Roberto de Mattei (Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010). In questo contesto, il convegno dei Francescani dell’Immacolata ha rappresentato una eccellente sintesi delle ricerche storico-teologiche sul Concilio, sulle ermeneutiche cui ha dato luogo, sul valore dei suoi documenti ed anche sui suoi punti meno chiari e più problematici.

I lavori sono stati aperti il 6 dicembre da S. E. mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro e noto teologo e apologeta, che ha aperto i lavori spiegando brillantemente le cause della perdita dell’identità cristiana nel contesto della modernità occidentale. «L’uomo che il Concilio incontra – ha detto mons. Negri – porta sulle sue spalle il fallimento della modernità». Il prelato ha fatto notare che la cultura cristiana nell’epoca moderna si è dapprima scontrata con la cultura secolare, ma a poco a poco ha finito per essere assorbita da quest’ultima, scolorendo i suoi connotati e uniformandosi alle linee di pensiero del razionalismo e dell’illuminismo. Il Concilio poteva rappresentare un’occasione propizia per ricentrare la cultura cattolica sulla Tradizione ma, in quanto minato da contrapposizioni, lotte intestine, letture secolarizzate e peregrine applicazioni, esso non ha potuto svolgere il suo ruolo, e nel post-Concilio ciò che ha prevalso è stata non la fede e l’identità, ma l’aggiornamento e l’adattamento alla sterile mentalità del mondo. Solo un ritorno all’identità potrà arginare la crisi epocale di fede che si registra da alcuni decenni.

Nella stessa mattinata ha preso la parola S. E. mons. Brunero Gherardini, grande esponente della scuola teologica romana, recente autore di due libri di capitale importanza, dedicati il primo al Concilio stesso (Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice 2009) e il secondo al concetto di Tradizione, dal punto di vista della teologia cattolica (Quod et tradidi vobis La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Casa Mariana Editrice 2010). «Il Concilio Vaticano II – ha affermato mons. Gherardini – non fu un Concilio dogmatico e neppure disciplinare, ma soltanto un concilio pastorale, e il genuino significato della sua pastoralità è ancora tra la nebbia». Nell’approccio al Concilio occorre distinguere quattro diversi livelli che esprimono tutti, ma con qualità teologica diversa, il suo supremo Magistero. Accennare in questa sede alla gradazione suggerita da Gherardini significherebbe tradirne la precipua acribia teologica, così ci limitiamo a segnalare il fatto che, secondo questa esegesi, solo uno di questi livelli, corrispondente al terzo, comporta una incontestabile validità dogmatica, anche se solo di riflesso, dedotta da precedenti definizioni: questo livello coincide con le notevoli citazioni che il Concilio fa di dottrine già solennemente definite che trattano di temi di fede e di morale. Gli altri ambiti del magistero conciliare, per la loro natura pastorale, per la loro intrinseca novità o per la loro contestualizzazione storica contingente, non comportano né l’infallibilità, né la definitività, e dunque richiedono un certo ossequio della mente, ma non «l’obbedienza della fede». L’errore di molti teologi del post-Concilio è stato proprio quello di dogmatizzare un Concilio che si volle pastorale, facendone altro rispetto a ciò che si prefisse chi lo convocò.

Nella seconda parte della mattinata, padre Rosario Sammarco FI, ha parlato della Formazione permanente del Clero alla luce della Presbyterorum ordinis. Con un linguaggio diretto e coinvolgente l’oratore ha mostrato come questa giusta indicazione conciliare si sia smarrita nei meandri del post-Concilio segnato da quella evidente rottura con la Tradizione causata, come direbbe Benedetto XVI, dalla “teologia moderna”. Significativo il fatto, segnalato dal teologo, della scomparsa a partire dagli anni ’70 della discussione dei “casi di morale”: questa prassi importante consigliata da santi come Carlo Borromeo e che si generalizzò durante l’’800, costituendo un punto di riferimento per confessori e pastori d’anime, scomparve improvvisamente negli anni ’70 e fu perfino cancellata dal nuovo Codice del 1983. Segno di quanto la rottura e la discontinuità non furono solo tra pre-Concilio e Concilio, ma anche tra Concilio e post-Concilio. Il post-Concilio però nel contraddire il Concilio, per esempio nell’uso del latino liturgico raccomandato dall’assise e disatteso nei fatti, non fu una “germinazione spontanea”, ma fu voluto e attuato malamente dalle autorità competenti, proprio per l’influenza della svolta antropologica della teologia e della religione stessa. Dopo padre Sammarco, ha tenuto una lezione magistrale il rev. prof. Ignacio Andereggen, docente alla Gregoriana e filosofo cattolico di primo livello.

Il professore ha mostrato con maestria l’essenza filosofica della modernità a partire dall’analisi di 4 autori fondamentali: Cartesio, Kant, Hegel e Freud. In tutti costoro, pur con differenze che li rendono assolutamente non omogenei, vi è la presenza di quel relativismo epistemologico che fu tipico tratto del cosiddetto “Rinascimento” e in parallelo il rifiuto della tradizione filosofica come tale. Con questi autori, ogni volta ci si trova davanti ad un nuovo inizio, segno che la filosofia moderna e contemporanea, nel rigetto del patrimonio di pensiero più comune dell’umanità, non si fonda che su se stessa. Il rifiuto poi del pensiero scolastico e della metafisica ne è uno degli assi portanti. Quanto ha influito questa pseudo-filosofia sul Concilio? Andereggen non l’ha precisato ma è evidente che molti vescovi e soprattutto molti periti, specie di aria francese (Chenu, Congar, etc.) e tedesca (Rahner, Küng, etc.) ne erano notevolmente pervasi. Da qui quell’insorgere, come Maritain segnalerà già nel 1966, a solo un anno dalla chiusura dei lavori conciliari, del “neo-modernismo” effettivamente più subdolo e più pericoloso dell’antico, anche perché meno esplicitamente assunto e dichiarato. Senza una retta filosofia, ha spiegato sapientemente Andereggen, è impossibile fare teologia: senza una teologia corretta poi, si corrompe anche la dottrina della fede.

Nel pomeriggio dello stesso giorno il prof. Roberto de Mattei ha mostrato nella sua relazione che il Concilio Vaticano II non può essere presentato come un evento che nasce e muore nello spazio di tre anni senza considerarne le profonde radici e le altrettanto profonde conseguenze che esso ebbe nella Chiesa. Il nesso tra Concilio e post-Concilio, ha affermato il prof. de Mattei, non è il nesso dottrinale tra i documenti del Concilio e altri documenti del post-Concilio. È il rapporto storico, stretto e inscindibile, tra il Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1962 e il 1965, e il post-Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1965 e il 1978 e si protrae fino ai nostri giorni. Questo periodo, globalmente considerato, dal 1962 al 1978, anno della morte di Paolo VI, forma un unicum, un’epoca, che può essere definita come l’epoca della Rivoluzione conciliare, così come gli anni tra il 1789 e il 1796, e forse fino al 1815, costituirono l’epoca della Rivoluzione francese. La pretesa di separare il Concilio dal post-Concilio, secondo de Mattei, è altrettanto insostenibile di quella di separare i testi conciliari dal contesto pastorale in cui furono prodotti. Nessuno storico serio, ma neanche nessuna persona di buon senso, potrebbe accettare questa artificiale separazione, che nasce da partito preso, più che da serena e oggettiva valutazione dei fatti. «Ancora oggi – ha concluso lo storico romano – viviamo le conseguenze della “Rivoluzione conciliare” che anticipò e accompagnò quella del Sessantotto. Perché nasconderlo? La Chiesa, come affermò Leone XIII, aprendo agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano, “non deve temere la verità”».

Lo storico francese Yves Chiron, la cui documentata relazione è stata letta da frà Juan Diego FI, ha poi parlato della volontà di certi vescovi e cardinali sotto Pio XI e Pio XII di convocare un nuovo Concilio o piuttosto di completare il Vaticano I, arrestato brutalmente dall’invasione di Roma del settembre 1870. I pontefici, pur assai interessati a queste proposte, le hanno infine respinte per evitare pericoli di frazionamento e “democratizzazione” dell’Assemblea deliberante. Interessanti i documenti portati alla luce dallo Chiron circa i temi che si intendevano trattare nell’eventuale Sinodo: essi erano simili a quelli poi proposti dalla Curia Romana sotto Giovanni XXIII, i quali in blocco furono respinti dal dibattito in aula per l’opposizione manifestata da certi influenti padri progressisti. Il 17 dicembre la giornata è stata aperta da un’interessante relazione storica su Alcuni personaggi, fatti e influssi al Concilio Vaticano II del padre Paolo Siano FI, il quale ha mostrato come l’ottimismo pastorale verso l’uomo e verso il mondo suggerito dai testi conciliari è stato usato da varie lobbies come grimaldello per condizionare lo svolgimento e la ricezione del Vaticano II. L’autore ha documentato come i fenomeni di crisi dottrinale, spirituale, liturgica e missionaria del post-Concilio hanno i loro prodromi in alcune idee e azioni di veri Padri e periti dell’assise conciliare. Padre Siano ha proposto come “medicinale” alla crisi almeno due “farmaci”: una Mariologia “forte” (in linea con la Tradizione e il Magistero della Chiesa) e una liturgia più orientata (anche visibilmente) a Cristo Crocifisso.

Di seguito ha tenuto una relazione, concisa ma densa, il rev. prof. Giuseppe Fontanella FI dal titolo Il Perfectae caritatis e la vita religiosa. Dove hanno condotto gli esperimenti pastorali?. Secondo il relatore, il documento conciliare si situa in linea con lo sviluppo teologico raggiunto circa il tema della vita religiosa, ma tante realizzazioni successive sembrano aver ceduto allo spirito della secolarizzazione e dell’orizzontalismo. I religiosi in quest’ottica dovrebbero diminuire le pratiche propriamente religiose, e aumentare l’inserimento nel mondo, allontanandosi però in tal modo dallo spirito dei fondatori. Ancora una volta i numeri parlano più che le analisi cervellotiche. Malgrado la tanto ripetuta “vocazione universale alla santità” gli istituti di perfezione hanno perso larga parte dei loro membri, soprattutto quelli che più hanno innovato rispetto ai loro tradizionali usi e costumi. Successivamente, S. E. mons. Atanasius Schneider, vescovo ausiliare in Kazakhstan, ha tenuto una profonda relazione sul senso pastorale del Concilio, mostrando, attraverso numerose citazioni, che nel Concilio esiste uno spirito teocentrico, apostolico, penitenziale e missionario, anzi la missionarietà ne sarebbe quasi la nota caratteristica.

È innegabile che il Vaticano II, letto in quest’ottica, abbia una gran quantità di bei testi di spiritualità e di religiosità, di dottrina omogenea alla grande Tradizione della Chiesa. Il problema secondo il Prelato sta nella cattiva interpretazione di certi suoi passaggi meno chiari: è evidente altresì che quando si parla di interpretazione, specie se universale e autorevole, non si può far riferimento ad una scuola particolare, come per es. quella di Bologna, ma ci si deve riferire alle commissioni post-conciliari e agli stessi episcopati. E dunque su costoro ricade la responsabilità di certe letture minimaliste e arbitrarie. In ogni caso, mons. Schneider ha coraggiosamente chiesto un nuovo Sillabo degli errori avvenuti nella interpretazione del Concilio e se questo Sillabo un giorno sarà pubblicato dalla Massima Autorità di certo esso gioverà a tutti i cattolici.

Una conferenza di grande valore teologico è stata poi quella di padre Serafino Lanzetta, giovane teologo dei Francescani dell’Immacolata. Padre Lanzetta ha fatto uno status quaestionis sull’approccio teologico al Vaticano II attraverso l’analisi della ricezione del Concilio in varie e diverse scuole teologiche post-conciliari. Quello che è emerso in sede di conclusioni è che il Concilio, sulle cui rette intenzioni non è dato di dubitare a nessuno, ha però favorito le opposte ermeneutiche post-conciliari con l’aver abbandonato, o almeno tralasciato, un approccio metafisico alle realtà della fede e della morale. Ciò che il Concilio insegna, lo insegna usando un modo descrittivo e spesse volte solo allusivo, e questo ha permesso ai novatori di estrapolare conclusioni teologiche aberranti di cui il Vaticano II non è responsabile, se non a causa della poca chiarezza e della poca precisione terminologica.

Le numerose ermeneutiche in atto e le variegate griglie interpretative, per esempio, erano impossibili da applicare ai testi del Vaticano I, e se sono state applicate con relativa facilità al Vaticano II, ciò è avvenuto per un certo rigetto del linguaggio scolastico tipico della tradizione teologica precedente detta sprezzantemente “manualistica”. Ad essa si volle sostituire il “resourcement” (De Lubac) cioè il ritorno ai Padri: ma i Padri in molti punti di teologia e di filosofia ne sapevano meno di noi, stante il progresso teologico nella comprensione della immutabile Rivelazione Divina e l’apporto decisivo del Tridentino e del Vaticano I in fatto di dogmatica. Il ritorno ai Padri e alle loro formule, alla liturgia dei primordi e alla Scrittura sa tanto di biblicismo, di fideismo e di archeologismo: tutto ciò che respingeva profeticamente Papa Pio XII nell’Humani generis (1950).

Ha tenuto quindi un’importante relazione il rev. don Florian Kolfhaus, della Segreteria di Stato. Il teologo tedesco ha, svolto una critica “dall’interno” ai documenti conciliari mostrando che il loro vario e differenziato valore magisteriale corrisponde alla loro maggiore o minore autorevolezza, la quale a volte si riduce al mero precetto disciplinare. Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi. Esso non affermò nessun nuovo dogma, nessun solenne anatema, e promulgò differenti categorie di documenti rispetto ai concili precedenti; e ciononostante il Vaticano II deve essere compreso nella continuità ininterrotta del Magistero, poiché esso fu un concilio della Chiesa legittimo, ecumenico e dotato della relativa autorità. Alcuni suoi documenti, vale a dire decreti e dichiarazioni, come Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, Nostra Aetate sulle religioni non cristiane e Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa, ha sottolineato don Kolfhaus, non sono né documenti dottrinali in cui si definiscono verità infallibili, né testi disciplinari che presentano norme concrete. In questo sta la grande novità del Vaticano II: contrariamente a tutti gli altri concili, che esponevano dottrina o disciplina, esso supera queste categorie. Si tratta di una esposizione dottrinale che non vuole tuttavia dare definizioni o delimitazioni in funzione contraria a degli errori, ma è rivolta all’agire pratico condizionato dal tempo. Il Concilio non ha proclamato alcun “nuovo” dogma e non ha revocato alcuna “vecchia” dottrina, ma piuttosto ha fondato e promosso una nuova prassi nella Chiesa.

La proposta di don Kolfhaus è stata quella di denominare la sfuggente espressione di magistero pastorale “munus predicandi”, ben delimitata rispetto al “munus determinandi”. Questo significa: annuncio della dottrina, non definizione dottrinale; legato al tempo e conforme al tempo, non immutabile e non sempre uguale; vincolante, ma non infallibile. Il 18 dicembre, ultimo giorno dei lavori, S. E. mons. Agostino Marchetto, parlando su Rinnovamento all’interno della Tradizione, ha ribadito la contraddittorietà delle analisi della scuola progressista di Bologna dei vari Dossetti, Alberigo, Melloni, etc., negando che per quanto riguarda il rapporto Concilio – post-Concilio, si possa parlare di un post hoc propter hoc. Resta da capire come è stato possibile ad una scuola teologica ultra-minoritaria di imporsi quasi ovunque nell’insegnamento universitario cattolico, nelle facoltà di teologia e di storia ecclesiastica, nelle riviste più lette dai teologi, dai pastori e perfino da fedeli.

Il rev. mons. prof. Nicola Bux, da parte sua, ha egregiamente parlato della scomparsa dello ius divinum nella liturgia: anche questa scomparsa, data dal Vaticano II e dall’immediato post-Concilio. Il liturgista pugliese ha notato che la Sacrosanctum Concilium permetteva una interpretazione in conformità colla tradizione liturgica cattolica, espressa ancora nel 1963 dalla Veterum Sapientia di Giovanni XXIII, ma nei fatti prevalse la logica della desacralizzazione e dell’innovazione. Infatti, tra il 1965 e il nuovo messale del 1970 vi sono state, da parte di organi diversi, come la Congregazione della fede e quella del Culto, delle circolari e delle autorizzazioni non solo diverse ma perfino contraddittorie e questo ha prodotto un caos liturgico da cui l’intera Chiesa non si è mai più ripresa. Don Bux ha incoraggiato i presenti alla duplice fedeltà alla tradizione liturgica, riabilitata dal recente motu proprio Summorum Pontificum, e all’esempio del Sommo Liturgo che a poco a poco sta riportando ordine e decoro nella celebrazione del Culto Divino.

Il neo-cardinale Velasio De Paolis, illustre canonista, ha concluso con vibranti parole in difesa del diritto ecclesiastico, giudicato negli anni del post-Concilio addirittura anti-evangelico. La legge invece è fonte di libertà e di sicurezza, e l’anomia (assenza di legge o di legge certa) crea malintesi, ingiustizie, discordie e rotture. Quando il diritto divino e canonico tornerà a regnare tra gli ecclesiastici l’attuale confusione generalizzata si attenuerà e si aprirà una nuova fase per la Chiesa.
I lavori, sapientemente moderati, nel corso dei tre giorni, dal padre Alessandro Apollonio FI, sono stati chiusi da mons. Gherardini, che ha ribadito come il Concilio Vaticano II non fu un unicum, un “blocco dogmatico”. Fu un Concilio pastorale e sul piano pastorale va collocato e giudicato, senza forzature ermeneutiche, che ne impongono la dogmatizzazione.

È questo il messaggio conclusivo del convegno romano destinato certamente a fare data, per il numero e la qualità dei relatori e degli ascoltatori, tra i quali si distinguevano S. Emin. il cardinale Walter Brandmüller e il segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, S. E. mons. Guido Pozzo. Fu del resto proprio il cardinale Ratzinger a dichiarare già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile che «il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale». Tuttavia, proprio questo “concilio pastorale” – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato «come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili».

da: Corrispondenza romana n.1172 del 25/12/2010

venerdì 17 dicembre 2010

Alcuni personaggi, fatti e influssi al Concilio Vaticano II (1962-1965)


Sintesi della Conferenza di P. Paolo M. Siano, FI

E' indubitabile che i fenomeni di crisi dottrinale, spirituale, morale, liturgica e missionaria del post-concilio hanno i loro prodromi anche in idee e azioni di vari padri e periti dell’assise conciliare; teorie e prassi che supponevano e causavano l’apertura indiscreta alla modernità, al mondo, e quindi ai “fratelli separati” (e talora in alcuni casi anche ai “fratelli” Liberi Muratori). Nonostante tutta la buona volontà pastorale, tali idee e tale aperturismo - poco ben ponderato - non hanno convertito le suddette categorie a Cristo, bensì hanno “convertito” molti cattolici a quelle categorie.

Già durante il periodo conciliare, nell’udienza del mercoledì 4 novembre 1964, Papa Paolo VI deplorava «che si è diffusa un po’ dappertutto la mentalità del protestantesimo e del modernismo, negatrice del bisogno e dell’esistenza legittima di un’autorità intermedia nel rapporto dell’anima con Dio.

A proposito della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, lo storico Hubert Jedin (1900-1980) – già perito conciliare del card. Frings – ha osservato che la Gaudium et spes fu salutata con entusiasmo ma la storia posteriore ha dimostrato che la sua importanza e valore furono «largamente sopravvalutati» e che il mondo, che si voleva portare a Cristo, era profondamente penetrato nella Chiesa.

Nel luglio 1966, a pochi mesi dalla fine del Concilio, l’ex Sant’Uffizio mette in guardia le Conferenze Episcopali da interpretazioni erronee dei decreti conciliari. Così riassumo gli errori denunciati dal Dicastero romano: biblicismo protestante; esegesi biblica razionalistica; storicismo e relativismo dogmatico e gnoseologico; soggettivismo etico (specialmente in materia sessuale); disprezzo verso il Magistero ordinario della Chiesa; negazione della divinità di Gesù Cristo; teoria della transignificazione eucaristica negatrice della transustanziazione; circa l’Eucaristia, insistenza sul concetto di agape a scapito di quello di sacrificio; deprezzamento della confessione sacramentale; minimizzazione del peccato originale e del concetto di peccato (non più inteso come offesa a Dio); falso ecumenismo che si confonde con l’irenismo e l’indifferentismo religioso.

Nell’udienza generale del mercoledì 19 gennaio 1972, Paolo VI denunciò apertamente l’attualità - sotto altri nomi – di quel «modernismo» già condannato dal Papa San Pio X col decreto Lamentabili (1907) e con l’enciclica Pascendi. Nell’udienza al Sacro Collegio Cardinalizio, del 23 giugno 1972, Paolo VI denunciò «una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa preconciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa “nuova”, quasi “reinventata” dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto».

Nel giugno 2009, a Roma, durante l’incontro annuale dei Rettori dei Seminari Pontifici, il Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, Mons. Jean-Louis Bruguès ha riconosciuto che quelli della sua generazione hanno interpretato «l’ “apertura al mondo” invocata dal concilio Vaticano II come un passaggio alla secolarizzazione». In un altro recente articolo, Mons. Bruguès ha denunciato l’auto-secolarizzazione che dal post-concilio in poi ha minato anche la vita religiosa.

Tra i frutti di questa autosecolarizzazione: «Gli organici sono diminuiti a vista d’occhio nelle chiese, nei corsi di catechesi, ma anche nei seminari». Mons. Bruguès ammette che la corrente ecclesiastica auto-secolarizzatrice è ancora dominante in quanto «i suoi adepti detengono ancora delle posizioni chiave nella Chiesa».

Il Vaticano II è stato un concilio «riformatore» di natura pastorale che si confrontò con tre termini sinonimi di «cambiamento», ossia: «aggiornamento, sviluppo, ressourcement».

Nel Concilio avvengono dibattiti e scontri conciliari anche molto duri; la segretezza al riguardo fu mal custodita. I mass-media, più presenti che nel passato, si impadronirono di tali fatti e li resero noti al grande pubblico influenzando anche la ricezione del Concilio.

Prima e durante il Concilio, un concetto chiave che esprime una nuova sensibilità di esser cattolico, è ressourcement, ossia ritorno alle fonti: concetto che fu proprio degli Umanisti del ‘400-‘500 (es. Erasmo da Rotterdam) e dei riformatori protestanti: ritornare alla Sacra Scrittura, ritornare alle fonti patristiche (queste ultime però rifiutate dai protestanti). Un tale concetto faceva ben comprendere un rifiuto o per lo meno un disagio di fronte al cattolicesimo post-tridentino… A tale ressourcement si richiamavano quei teologi europei di metà Novecento che vennero censurati dal Sant’Uffizio: i teologi della cosiddetta Nouvelle Théologie, profondamente anti-tomista e anti-scolastica. Dopo l’enciclica Humani generis di Pio XII, questi teologi, sospettati di neo-modernismo, vennero rimossi dall’insegnamento con la proibizione di pubblicare scritti su alcuni temi. Tra questi, ricordiamo Henri De Lubac, Yves Congar, Marie-Dominique Chenu. Karl Rahner ebbe censure e divieti di pubblicazione dal 1951 al 1962, prima dell’inizio del Vaticano II, allorché gli fu notificato che i suoi scritti sarebbero andati in stampa solo dopo aver passato la censura romana. La riabilitazione conciliare di tali studiosi è «uno degli aspetti che più colpiscono del Vaticano II, nonché un’ulteriore indicazione del fatto che il Concilio intendesse modificare lo status quo».

Lo studioso Joseph Komonchak cerca di esaminare la questione della continuità/discontinuità del Concilio (dalla Tradizione) dal punto di vista dottrinale, teologico e storico sociologico. Dal punto di vista dottrinale c’è continuità, in quanto il Vaticano II non ha abbandonato alcun dogma e non ne ha definito di nuovi. Dal punto di visto storico-sociologico si può dire che il Concilio sia stato l’evento più importante nella storia della Chiesa del secolo XX, segnando una «svolta epocale».

Circa la polarità conciliare conservatori-progressisti, osserva O’Malley:

«Durante il Concilio, i media accusavano spesso i conservatori di oscurantismo, intransigenza, scarso senso della realtà, nonché di mettere in atto manovre sporche. Una cosa, sicuramente, si può dire in loro favore: vedevano, o almeno denunciavano più apertamente, la novità e le pesanti conseguenze di alcune decisioni conciliari, mentre i leader della maggioranza, viceversa, in genere cercavano di minimizzare la novità di alcune delle loro posizioni e insistevano che fossero, invece, in continuità con la tradizione. Ed è un’ironia che dopo il Vaticano II i conservatori abbiano cominciato a parlare di continuità del Concilio mentre i cosiddetti liberali ne sottolineavano la novità».

Interessanti i racconti di due giornalisti contemporanei al Vaticano II: p. Ralph Wiltgen SVD (1921-2007), ed Henri Fesquet.

Nel 1967 uscì la prima edizione del libro di Wiltgen, The Rhine flows into the Tiber. A History of Vatican II. Il suo libro reca l’imprimatur dell’allora Arcivescovo di New York, Mons. Terence Cooke (15-12-1966). Nella prefazione, Wiltgen spiega che per Reno egli intende il gruppo di Padri e periti conciliari appartenenti a quei Paesi in cui scorre il fiume Reno (Germania, Austria, Svizzera, Austria, Olanda) incluso il vicino Belgio. Tale gruppo – precisa Wiltgen – fu il più influente al Concilio Vaticano II («the most influential group»).

Henri Fesquet, ex novizio dei Missionari d’Africa, poi discepolo di Jean Guitton e di p. Yves Congar O.P., dal 1950 giornalista di Le Monde, racconta il Concilio con spirito laico e progressista che si può sintetizzare nei seguenti punti: 1) “complotti” e “lobbies” conciliari, para ed extra-conciliari; 2) minimalismo mariologico ed ecumenismo “del non-ritorno”; 3) cenni di biblicismo; 4) collegialità episcopale tra ortodossia ed episcopalismo-conciliarismo; 5) Vita Consacrata tra sacro e secolarismo; 6) apertura al mondo; 7) contraccezione; 8) un curioso Padre conciliare.

In seguito, il Card. Tisserant confidò a Jean Guitton che lui e sei porporati si riunirono prima dell’apertura del Concilio e decisero di bloccare la prima seduta conciliare rifiutando le regole stabilite da Giovanni XXIII.

I Padri “renani” riuscirono ad aver l’appoggio di molti africani anglofoni e francofoni nonché di altri Padri europei e statunitensi. Insomma la lista di Frings divenne internazionale, e poteva garantire in tutte le Commissioni conciliari la presenza della cosiddetta “Alleanza renana” o “europea”. Questa ottenne il 49% di tutti i seggi elettivi e il 50% della Commissione Teologica, la più importante.

La cosiddetta Alleanza renana-europea era appoggiata anche da Vescovi latino-americani, (rappresentati dal card. Raul Silva Henriquez di Santiago del Cile), nonché dai Superiori religiosi e dai vescovi missionari provenienti dai Paesi “renani”. Ovviamente il cardinal Frings era appoggiato da quei Vescovi delle terre di missione che ricevevano generosi finanziamenti attraverso due agenzie da lui fondate: Misereor e Adveniat.

I vescovi olandesi fecero distribuire ai Padri conciliari circa 1500 copie di un commentario anonimo di p. Schillebeckx che criticava in maniera devastante i quattro schemi dogmatici:

1) Le Fonti della Rivelazione, 2) La custodia del Deposito della Fede, 3) L’Ordine morale cristiano, 4) Castità, Matrimonio, Famiglia e Verginità.

Durante la prima sessione del Concilio il teologo svizzero P. Hans Küng (ben noto per il suo progressismo) si dichiarò soddisfatto del rigetto dello schema curiale su dogma ed ecumenismo e sulle fonti della rivelazione. Al Concilio, Mons. Sergio Mendez Arceo, il vescovo di Cuernavaca (Messico), si fecedifensore della Massoneria (auspicandone la riconciliazione con la Chiesa), degli Ebrei e della psicanalisi. Auspicò anche il riconoscimento delle comunità protestanti come chiese.

Personaggio influente al Concilio fu il gesuita p. Karl Rahner. Le sue idee sono rilevabili comparando le sue osservazioni ai tre schemi conciliari (su Rivelazione, B.V. Maria, Chiesa) con quelle sottoposte al Segretariato Generale del Concilio Rahner contestò lo schema mariologico dal punto di vista della teologia moderna e dell’ecumenismo. Rahner precisò che secondo un punto di vista teologico moderno, le dottrine di quello schema non possono divenire dogma. Ciò che Rahner attaccava di quello schema era, specialmente, la dottrina sulla mediazione della Beata Vergine Maria ed il titolo di Mediatrice di tutte le grazie. Eppure era una dottrina comune nella Chiesa, insegnata dal Magistero ordinario della Chiesa. Rahner riuscì a convincere i Padri riuniti a Fulda che lo schema non poteva esser accolto nella sua presente forma. Erano contrari al titolo mariano di “Madre della Chiesa” i Vescovi di lingua tedesca e dei Paesi scandinavi e Mons. Mendez Arceo.

Nell’intervallo tra la seconda e la terza sessione conciliare, il barone Yves Marsaudon, massone del 33° grado RSAA (Grande Loge de France), raccontò in un libro le sue speranze progressiste ed ecumeniche. Marsaudon lodò la maggioranza conciliare contro la minoranza curiale “integralista”… Marsaudon vede il Vaticano II come la rivoluzione dei Papi Roncalli e Montini che finalmente metterebbe fine alla Chiesa medievale… Marsaudon elogia la semplificazione della liturgia, l’uso liturgico del vernacolo, il divorzio, il minimismo mariologico, la collegialità episcopale (ma in senso antipapale), l’ecumenismo che unisce e supera dogmi e religioni, la libertà di pensiero che partita dalle logge massoniche si è estesa al di sopra della Basilica di San Pietro…

Sulla pastoralità del Concilio, nessun dubbio e nessuna discussione


(Sintesi della conferenza di mons. Brunero Gherardini)

Il Vaticano II non fu, solo perché non doveva esserlo, un Concilio dogmatico e tutto sommato nemmeno disciplinare. Volle esser soltanto pastorale. Eppure, nonostante i tanti interventi interni ed esterni, il genuino significato della sua dichiarata pastoralità è ancora fra le nebbie.

Nell’esortare il clero a farsi di giorno in giorno strumento d’un sempre più idoneo servizio al popolo di Dio, il Vaticano II dichiara esplicitamente che la sua finalità pastorale si ripromette “il rinnovamento interno della Chiesa, la diffusione dell’evangelo in tutto il mondo e l’instaurazione d’un rapporto dialogico con esso”. Una tale finalità corrisponde evidentemente ad un’idea di fondo, ad una nozione almeno rudimentale di pastorale appena adombrata: rapporto dialogico col mondo da parte d’una Chiesa rinnovata nei suoi metodi d’evangelizzazione e d’apostolato.

Papa Roncalli, l’11 ottobre 1962, prospettò ai Padri aprendo ufficialmente la grande Assise conciliare: pur mettendo la dottrina al primo posto dei lavori conciliari, ne diversificò la metodologia rispetto al passato. Prima la Chiesa non rifuggiva dalla condanna, severa e ferma. Oggi alla severità preferisce la medicina della misericordia. Per papa Roncalli, dunque, soprattutto di fronte ad un’umanità prigioniera di tante difficoltà, la Chiesa avrebbe dovuto mostrare il volto buono benevolo paziente della Madre, fomentare la promozione umana dilatando gli spazi della carità, diffondere serenità pace concordia ed amore.

A conferma dell’indirizzo roncalliano, Paolo VI, nell’omilia del 7 dic. 1965 per la nona sessione del Concilio, dichiarò che la Chiesa ha a cuore, insieme con il regno dei cieli, l’uomo ed il mondo, è tutta anzi in funzione dell’uomo e del mondo, intimo essendo il legame tra la religione cattolica e la vita umana, al punto che dell’uomo e del genere umano la religione cattolica può dirsi la vita stessa, grazie alla sua sublime dottrina, alla cura materna con cui accompagna l’uomo verso il suo fine supremo, ai mezzi che gli dona perché possa conseguirlo.S’impone, a questo punto, un giudizio sereno ed obiettivo sulla qualità complessiva del Vaticano II, che affrettatamente ed ingenuamente fu chiuso nell’area pastorale.Chi ha dimestichezza non con la sola Gaudium et Spes, ma con tutt’i sedici documenti conciliari, si rende ben conto che la varietà tematica e la corrispettiva metodologia collocano il Vaticano II su quattro livelli, qualitativamente distinti:

1. quello generico, del Concilio ecumenico in quanto Concilio ecumenico;

2. quello specifico del taglio pastorale;

3. quello dell’appello ad altri Concili;

4. quello delle innovazioni.

Sul piano generico, il Vaticano II ha tutte le carte in regola per esser un autentico Concilio della Chiesa cattolica: il 21° della serie. Ne discende un magistero conciliare, cioè supremo e solenne. La qual cosa di per sé non depone per la dogmaticità ed infallibilità dei suoi asserti; anzi nemmeno la comporta, avendola in partenza allontanata dal proprio orizzonte.

Sul piano specifico la qualifica di pastorale ne giustifica i vastissimi interessi, non pochi dei quali eccedenti l’ambito della Fede e della teologia: p. es. la comunicazione sociale, la tecnologia, l’efficientismo della società contemporanea, la politica, la pace, la guerra, la vita economico-sociale. Anche questo livello appartien all’insegnamento conciliare ed è quindi supremo e solenne, ma non può vantare, per la materia trattata e per il modo non dogmatico di trattarla, una validità di per sé infallibile e irriformabile.

L’appello ad alcuni insegnamenti di precedenti Concili costituisce il terzo livello. E’ un appello talvolta diretto ed esplicito (LG 1 “praecedentium Conciliorum argumento instans”; LG 18: “Concilii Vaticani primi vestigia premens”; DV 1: “Conciliorum Tridentini et Vaticani I inhaerens vestigiis”), talvolta indiretto ed implicito, che riprende verità già definite: p. es. la natura della Chiesa, la sua struttura gerarchica, la successione apostolica, la giurisdizione universale del Papa, l’incarnazione del Verbo, la redenzione, l’infallibilità della Chiesa e del magistero ecclesiastico, la vita eterna dei buoni e l’eterna condanna dei cattivi. Sotto questo aspetto, il Vaticano II gode d’un’incontestabile validità dogmatica, senz’esser per questo un Concilio dogmatico, essendo la sua una dogmaticità di riflesso, propria dei testi conciliari citati.

Le innovazioni costituiscono il quarto livello. Se si guarda allo spirito che guidò il Concilio, si potrebbe affermare ch’esso fu tutto un quarto livello, animato com’era da uno spirito radicalmente innovatore, anche là dove tentava il suo radicamento nella Tradizione. Alcune innovazioni sono però specifiche: la collegialità dei vescovi, l’assorbimento della Tradizione nella Sacra Scrittura, la limitazione dell’ispirazione ed inerranza biblica, gli strani rapporti con il mondo ebraico ed islamico, le forzature della c.d. libertà religiosa. E’ fin troppo chiaro che se c’è un livello al quale la qualità dogmatica non è assolutamente riconoscibile, è proprio quelle delle novità conciliari.

Capire e valutare il Concilio


E’ iniziato ieri e si protrarrà fino al 18 dicembre, un convegno di studi sul Concilio Vaticano II presso l’auditorium dell’Istituto Maria SS. Bambina di Roma.

Organizzato dai Frati Francescani dell’Immacolata, lo scopo è un’analisi storico-filosofico-teologica su un evento che attira ancora attenzione e suscita una valutazione onesta e profetica per l’avvenire della Chiesa. A oltre 40 anni dal Vaticano II, infatti, l’entusiasmo dei padri conciliari si scontra con la problematica situazione della Chiesa e della società contemporanea.

Mons. Luigi Negri, vescovo di S. Marino-Montefeltro ha aperto i lavori con una prolusione nella quale ha ricordato le sfide della Chiesa di oggi, bisognosa più che mai di una riforma culturale e di un rilancio missionario.

Mons. Brunero Gherardini, offrendo la prima conferenza, ha evidenziato l’indole pastorale del Vaticano II, collocando nel giusto valore e nei giusti limiti le esperienze prodottesi in ambito apostolico e liturgico, non sempre decifrate e vissute dal popolo di Dio nel recupero del sacro e nell’approfondimento della dottrina.

“La nostra volontà – afferma p. Alfonso M. Bruno, portavoce dei Francescani dell’Immacolata - non è quella di scivolare o lasciarsi strumentalizzare dalle correnti polarizzate dei cosiddetti progressisti e tradizionalisti, ma di offrire un contributo accademico di riflessione per un’ermeneutica della continuità del Vaticano II, nella Chiesa che è in una continua riforma, ma che altresì non inventa se stessa”.

Nel pomeriggio molto apprezzate sono state le conferenze dei professori Roberto de Mattei, Yves Chiron e Ignacio Andereggen che hanno parlato rispettivamente sul repentino cambiamento della Chiesa nel XX secolo, sul percorso storico dei pontefici tra il Vaticano I e il Vaticano II e su un’analisi filosofica della modernità.

Hanno fatto da corollario alle conferenze le comunicazioni dei docenti dello Studio Teologico “Immacolata Mediatrice”.

giovedì 16 dicembre 2010

Cosa voleva essere veramente il Concilio?

Fino a qualche anno fa, era assolutamente proibito porsi in modo critico dinanzi al Concilio Vaticano II. Per respingere l’oltranzismo opposto, di dura marca tradizionalista, bisognava solo incensare il Concilio: nome che presto si impose per definire il Vaticano II. Bisognava parlarne sempre bene e bisognava far finta che tutto andava bene. Ma la Chiesa languiva e langue nel suo intimo. È successo qualcosa al Vaticano II?, si chiedeva il padre gesuita J. W. O'Malley. Fu quel memorando discorso di Benedetto XVI alla Curia romana, del dicembre 2005, che riuscì a rompere quel rispettoso ed irriverente silenzio dominante. Il Pontefice parlava di due ermeneutiche che si erano tra loro scontrate: quella giusta della continuità nella riforma e quella errata della discontinuità e della rottura. Dove il Concilio è stato interpretato come momento solenne della Tradizione della Chiesa, ma senza provocare sconquassi, si son visti anche i buoni frutti: la nascita di nuove congregazioni religiose, l’amore e la devozione costanti alla Madonna, la retta celebrazione della liturgia, senza estri e arbitri, la nascita di nuovi movimenti laicali, ecc. Lì dove invece ha prevalso la rottura, si è assistito al nascere, per tanti versi, di una “nuova” fede, di una chiesa antropocentrica. Dopo più di quarant’anni di recezione conciliare, dobbiamo constatare un fatto: nella Chiesa, in larga parte, ha prevalso la rottura. Il negarlo è già sintomo di avere quei paraocchi ideologici, che spingevano, nell’immediato post-concilio, e ancora adesso, a vedere tutto bello, tutto buono: anche il peccato era una cosa bella e buona, perché era una componente dell’uomo! Sì, ha prevalso purtroppo la rottura: tanti seminari vuoti, chiese semivuote, partecipazione ai sacramenti ridotta al lumicino, un fai da te esasperante, promosso spesso da una predicazione in cui il “presidente dell’assemblea” si improvvisa presentatore di un talkshow comunitario. Eppure, qui ci si appella al Concilio. La radice dell’arbitrio, comunque, è riconducibile al concetto teologico di “conciliarità”, che il Vaticano II avrebbe inaugurato. In questa interpretazione si è distinta la Scuola di Bologna, che con Alberigo e i suoi collaboratori, ha voluto espungere dai testi lo spirito, l’evento: un nuovo modo di essere chiesa oggi. Il Vaticano II sarebbe comprensibile nella misura in cui non ci si ferma solo ai dati conciliari, ma partendo dai dati, si va avanti in un crescendo sempre nuovo, purché si ignori quello che la Chiesa era stata prima. Il prima è quasi da cancellare in nome del nuovo. Non è forse vero che tanti sacerdoti si vergognano della Chiesa di prima? Di prima, appunto. Perché ormai c’è solo una Chiesa del dopo. Un dopo che però guarda ad un futuro incerto: un futuro senza un’origine è un futuro senza un’anima, senza una forma. La Chiesa si è ritrovata, in tante sue componenti, ad essere un agglomerato senza più una forma. E tanti hanno disertato i banchi delle nostre assemblee per andare ad occuparne altri, magari più comodi, ma in tanti, panche nelle quali c’era ancora un inginocchiatoio.

È prevalso il fatto che tutti sono uguali, preti e fedeli, tutti fanno la stessa cosa. Prassi, tutto è divenuto prassi; un fare che però alla fine stanca. La rottura ha fatto prevalere il fare, principiando da un’ideologia, che nella voluta equivocità del lemma “pastorale”, ha dettato i canoni di un nuovo modo di fare, ma che ha portato la Chiesa, in tante sue parti, nelle secche di un secolarismo asfissiante. L’uomo è stato messo al centro. La pastorale, in larga scala, è divenuta – in realtà non sappiamo più precisamente cosa sia – il modo pratico di adattare la sostanza della dottrina della fede al mondo che cambia, e finalmente, di adattare la fede al mondo. Non più un mondo da convertire alla fede di Cristo, ma una fede da adattare al mondo, ad un mondo contemplato già in sé santo e salvo, i cui parametri sono divenuti i nostri criteri di giudizio, il nostro porci e il nostro vivere. Il mondo è entrato nella Chiesa ma la Chiesa fa ancora fatica ad entrare nel mondo. Perché?

Tanti sforzi pastorali sono semplicemente una lettura sociologica di dati che, in verità, le statistiche dell’Istat forniscono con più precisione.

L’uomo, in verità, continua ad aver bisogno di Dio, della vera spiritualità, della vera devozione. Dobbiamo allora capire il giusto rapporto tra Chiesa, Concilio e Tradizione. Un concilio non è mai superiore alla Chiesa, né tanto meno alla sua Tradizione. Tanti hanno iniziato a credere nel Concilio e non più nella Chiesa. Un concilio non può cambiare la Chiesa. Se lo ha fatto, è segno che c’è qualcosa che non ha funzionato nella sua recezione. Tutto questo lo stiamo esaminando nel nostro convegno organizzato a Roma dal 16 al 18 dicembre 2010, dai Francescani dell’Immacolata, dal titolo: Concilio Ecumenico Vaticano II: un concilio pastorale. Analisi storico-filosofico-teologica.


p. Serafino M. Lanzetta, FI